L’aereo, è risaputo, è uno tra i mezzi di trasporto più sicuri ma, quando si parla di incidente aereo, l’immagine che ci viene in mente è quella desolante dei rottami sparsi al suolo. Nonostante siano scampati alla morte, i 16 superstiti del volo 571 vissero lunghe settimane di stenti e sofferenze prima di essere soccorsi. Per fortuna, molti di loro hanno potuto raccontarlo.
Questa è l’esperienza vissuta dai 16 superstiti del volo 571 diretto all’aeroporto di Santiago del Cile.
La partenza
La mattina del 12 ottobre 1972 il volo 571 era partito dall’aeroporto di Carrasco di Montevideo (Uruguay) con destinazione Benitez (Santiago del Cile) senza nessuno scalo previsto.
Il velivolo era stato prenotato dalla squadra di rugby Old Christians Club e a bordo erano imbarcati oltre agli atleti, diretti a disputare una partita al di là della Cordigliera delle Ande, anche alcuni loro amici e familiari e una donna di nome Graciela Mariani, diretta a Santiago per il matrimonio della figlia.
Al momento della partenza, sul Fokker/Fairchild FH-227D c’erano 40 passeggeri e 5 membri dell’ equipaggio. In cabina di pilotaggio piloti esperti, dal comandante Julio César Ferradas, al copilota Dante Héctor Lagurara. Il comando fu affidato proprio a Lagurara, che avrebbe usufruito di quelle ore di volo per ottenere il requisito per poter comandare un Fokker.
Quando i membri dell’equipaggio, integrati da Ramón Martínez, Carlos Roque e lo steward Ovidio Ramírez, avviarono le procedure per il decollo, dal diario di bordo mancavano due atleti: uno aveva deciso per un altra compagnia aerea e l’altro era semplicemente arrivato in ritardo ai cancelli d’imbarco.
Lo scalo imprevisto
Mentre il volo 571 stava sorvolando il territorio argentino, la torre di controllo informava i piloti di una forte perturbazione che stava per abbattersi sulla zona. Per questo motivo era stato deciso un atterraggio precauzionale all’aeroporto El Plumerilli di Mendoza.
Dopo aver trascorso la notte nella città argentina, il giorno successivo le condizioni meteorologiche non erano affatto migliorate. Da un lato c’era la possibilità di un rientro infruttuoso a Montevideo, con la perdita di tutte le prenotazioni e dall’altra c’era il rischio di un volo poco sicuro.
Ferradas e Lagurara si consultarono ed infine decisero di proseguire per Santiago. Tra le due rotte percorribili, i comandanti scelsero il passaggio a sud verso Malarque e, una volta superate le Ande sul passo Planchón, il volo 571 avrebbe riportato la rotta verso nord in direzione della capitale cilena.
La scelta di Lagurara
La scelta del comandante Lagurara fu forse influenzata dal fatto di preferire un passaggio servito dal VOR (un particolare sistema di navigazione) rispetto all’altra rotta che ne era priva? Probabilmente la scelta era giustificata dalle avverse condizioni meteorologiche, che facevano presagire che gran parte del volo si sarebbe svolto al di sopra di una spessa coltre di nubi.
Il sistema VOR, però, dava ai piloti una visione solo orizzontale e non su ciò che si trovava sotto all’aereo. Quando il volo 571 arrivò in prossimità di Malargue, si preparò a valicare il Planchón viaggiando a circa 5480 metri di quota.
Secondo i suoi calcoli, dopo circa 13 minuti dal presunto passaggio sopra Malargue, il comandante Lagurara alle 15:21 comunicò alla torre di controllo di Santiago la sua posizione sopra Planchón, quindi in avvicinamento a Curicò.
Il comandante del volo 571, probabilmente, non aveva tenuto conto del vento da ovest che superava i 60 km/h e fu portato a credere di essere in prossimità dell’aeroporto Merino Benitez. Quando la torre di controllo cilena diede le istruzioni per l’atterraggio, l’aereo si trovava invece proprio sopra il passo Planchòn e stava per compiere la manovra che avrebbe fatto schiantare l’aereo direttamente sopra la Cordigliera.
Lo schianto
Con la certezza di essere in prossimità dell’aeroporto, il volo 571 si apprestava a compiere la sua discesa nella zona tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinquiririca. Quando un’improvvisa perdita di quota portò l’aereo al di sotto dello strato di nuvole, tutti si resero conto di essere a pochi metri dalle creste rocciose delle Ande.
Lagurara cercò di rimediare all’errore spingendo i motori al massimo e cercando di riprendere quota ma era troppo tardi: alle 15:31 l’ala destra dell’aereo colpì il crinale della montagna a circa 4200 metri di altitudine.
A seguito dello scontro, l’ala destra si staccò dalla fusoliera e colpì la coda dell’aeromobile spezzandolo in due all’altezza della cambusa.
I primi passeggeri morirono così, precipitati insieme alla parte posteriore dell’aereo, nel frattempo l’elica del motore destro distruggeva la fusoliera.
La caduta
L’aereo, ridotto a un corpo privo di forma, urtò un’altra parete rocciosa prima di precipitare sulla neve e scivolare per circa due chilometri. La fusoliera si fermò a quota 3600 metri, mentre la coda dell’aereo proseguiva la sua caduta più in basso.
Le prime ricerche
Subito dopo aver perso i contatti con il volo 571, la torre di controllo dell’aeroporto Benitez fece partire le ricerche, individuando la zona del probabile impatto. Purtroppo le condizioni atmosferiche e il territorio impervio impedirono di intercettare i rottami.
Così, dopo una settimana di inutili tentativi, le ricerche furono sospese il 21 ottobre, convinti che nessuno fosse sopravvissuto in quelle condizioni.
Le ricerche
Alle ricerche parteciparono anche i familiari dei passeggeri, i quali interpellarono un rabdomante che localizzò il punto dello schianto nei pressi del vulcano Tinguiririca.
In seguito fu interpellato anche il figlio di un noto chiaroveggente, Gerard Croiset Junior, il quale localizzò i resti dell’aereo a circa 60 km da passo del Planchòn. Sorprendentemente, Croiset “vedeva” la fusoliera senza le ali e superstiti vivi al suo interno.
La tenacia di un padre
Man mano che i giorni passavano senza nessuna traccia dell’aereo, nei famigliari accresceva la paura che nessun passeggero fosse sopravvissuto. L’unico a non arrendersi fu Paez Vilarò, che si ostinò a cercare suo figlio con ogni mezzo.
Durante le sue ricerche, inconsapevolmente Paez si avvicinò al luogo dell’incidente e si recò persino a casa di Sergio Catalan, il mandriano che due mesi dopo avrebbe ritrovato la spedizione dei superstiti.
Mancava poco a Natale e Paez, dopo aver rinunciato a proseguire le ricerche, si trovava in aeroporto per ritornare in Uruguay, quando ricevette una telefonata.
Era il colonnello Morel, comandante del reggimento Colchagua di San Fernando che lo informava del ritrovamento dei due sopravvissuti.
I sopravvissuti
Una volta raggiunto Los Maitenes, i superstiti poterono finalmente raccontare quanto era accaduto. Erano state lunghe settimane di stenti, con i pasti razionati a base di marmellata e cioccolato. Un pezzo di lamiera dell’aereo fu usato per sciogliere la neve prima di berla.
Lo spirito di iniziativa e una buona organizzazione certamente contribuirono alla sopravvivenza dei superstiti. I compiti, come l’assistenza ai feriti, la gestione delle scorte alimentari, le pulizie, furono equamente distribuiti.
La sospensione delle ricerche
I superstiti appresero della sospensione delle ricerche attraverso una radiolina a transistor e la speranza dei sopravvissuti era ormai terminata, così come il cibo a disposizione.
L’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio sulla tentazione di lasciarsi andare, così fu presa l’ardua decisione: superare le resistenze morali e religiose e continuare a vivere cibandosi dei cadaveri sepolti nella neve.
La sciagura nella sciagura
Nella notte del 29 ottobre si consumò un’altra tragedia: il rottame della fusoliera dove riposavano i passeggeri superstiti fu travolta da una valanga. Altri otto dei passeggeri persero la vita e tra questi c’era anche l’ultima donna rimasta in vita: Liliana Methol.
Dopo la valanga, la tormenta non accennava a placarsi e la fusoliera fu travolta da una seconda valanga ma, essendo quest’ultima già sommersa dalla coltre bianca, questo non causò ulteriori danni.
I sopravvissuti rimasero chiusi nella fusoliera per diversi giorni durante la tormenta e, quando riuscirono ad uscire, avevano maturato l’idea di mettersi in cammino verso la salvezza.
La spedizione
Ovviamente non tutti i superstiti potevano far parte della spedizione, così nei giorni precedenti furono effettuati dei giri di prova nelle vicinanze per individuare i soggetti più indicati.
Alla fine furono scelti quattro membri del gruppo: Parrado, Canessa, Vizintin e Turcatti, che sarebbero partiti dopo la metà di novembre contando sul miglioramento del clima.
Nel frattempo, la morte di Arturo Nogueira, il cui fisico si arrese alle numerose ferite, non intaccò la speranza dei sopravvissuti di poter uscire da quell’incubo.
La partenza
Il 15 novembre la spedizione partì verso est ma, purtroppo, dopo sole 3 ore di cammino una violentissima nevicata costrinse gli uomini a rientrare al campo base. Nel frattempo Turcatti ebbe un piccolo infortunio che gli procurò un livido ad una gamba e al momento di ripartire non era in grado di camminare.
Il 17 novembre finalmente la spedizione riprese il cammino e dopo circa due ore Canessa, Parrado e Vizintin, ritrovarono il pezzo di coda spezzato dell’aereo. Oltre ad una scorta di cibo e abiti puliti, il rottame fu un punto di riferimento per la notte.
Il giorno seguente, i tre ripartirono mantenendo la direzione verso est, anche se man mano il percorso sembrava sempre più impervio. Il gruppo trascorse la seconda notte tra le montagne riparandosi dal freddo all’interno di una buca scavata nella neve, ma si resero conto che non avrebbero resistito ad un’altra notte di freddo così intenso.
Di conseguenza i tre decisero di ritornare alla coda dell’aereo, prelevare le batterie e portarle alla fusoliera per cercare di fare funzionare la radio. L’operazione non riuscì per via della salita e del peso delle batterie, così la squadra decise di andare alla fusoliera, prelevare la radio e portarla allo spezzone di coda.
Il ritorno al campo base
Il morale del gruppo peggiorò improvvisamente con la morte di un altro sopravvissuto, Rafael Echavarren, sfinito dalle ferite alle gambe. Il 23 novembre fu prelevata la radio dalla cabina di pilotaggio con la speranza che Harley riuscisse a farla funzionare.
La spedizione riprese con fiducia il suo cammino nella neve, mentre il resto del gruppo rimasto alla fusoliera era cosciente che se l’impresa non fosse riuscita, per loro sarebbe stata la fine. La neve, infatti, si stava sciogliendo velocemente con l’alzarsi delle temperature e presto non avrebbero avuto nemmeno cibo. Grand parte dei cadaveri, infatti, erano sepolti sotto metri di neve dopo la valanga mentre quelli in superficie presto avrebbero iniziato il processo di putrefazione.
Nessun segnale radio
Quando finalmente il gruppo riuscì a completare i collegamenti tra la radio, le batterie e l’antella, tutti assistettero al tentativo di comunicare una richiesta di soccorso, ma non captarono nessun segnale. Così apportarono alcune modifiche e provarono nuovamente: questa volta riuscirono ad ascoltare un notiziario che parlava proprio del loro volo.
La notizia era che un Douglas C-47 aveva ripreso le ricerche del Fokker e si seppe più tardi trattarsi dei tentativi di Carlitos Paez e qualche altro genitore che non si era arreso alla sospensione delle ricerche.
Quando la spedizione ritornò al campo base, l’entusiasmo fu in parte smorzato da ciò che videro: i loro compagni erano allo stremo delle forze, il caldo cominciava a farsi sentire e i feriti erano sempre più deboli.
La situazione stava diventando sempre più drammatica e la tensione creava dei frequenti scontri di vedute su quello che erano i compiti quotidiani e le speranze sul futuro. L’unica certezza che accumunava tutti i sopravvissuti era la necessità di riprendere la spedizione.
Se da un lato Canessa sembrava titubante e cercava di procastinare la partenza, la morte di Turcatti il 10 dicembre fece prendere la decisione finale: Parrado, Canessa e Vizintín organizzarono il viaggio e il 12 dicembre partirono per raggiungere il Cile a piedi.
Est o Ovest?
Se solo i membri della spedizione avessero saputo di trovarsi in mezzo alle montagne tra Cile e Argentina, avrebbero scelto di dirigersi verso Est, dove a breve distanza avrebbero trovato le pianure. Invece, i tre si diressero verso Ovest dove li attendeva una lunga serie di vette.
Dopo tre giorni di cammino riuscirono a raggiungere i 4600 metri di quota e dalla cima videro una distesa interminabile di vette da superare. A quel punto, il gruppo si divise: Vizintín ritornò al campo base e Canessa e Parrado proseguirono la spedizione.
I due camminarono per altri sette giorni, finché videro quella che sembrava una pianura. Proseguendo in quella direzione, arrivarono finalmente sul corso del Rio Azufre e costeggiarono il fiume fino a perdere completamente le forze.
Ad un tratto, mentre riposavano sulla riva, Parrado ebbe l’impressione di aver visto un essere umano a cavallo ma, benché i due si fossero messi ad urlare per essere notati, la figura urlò loro qualcosa di ritorno e si allontanò.
In effetti, l’uomo era andato a chiedere aiuto. Il giorno seguente, infatti, arrivarono tre uomini a cavallo e tra questi c’era il mandriano Sergio Catalán, che scrisse un messaggio su un foglio di carta: “Più tardi arriverà un uomo a incontrarvi. Cosa desiderate?“.
Parrado scrisse la sua risposta e lanciò il messaggio come aveva visto fare al mandriano: “Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?“
Il salvataggio dei sopravvissuti
Sul luogo arrivarono due elicotteri ma le condizioni del territorio non permettevano ai velivoli di atterrare, così gli elicotteri stazionarono a pochi metri da terra per permettere ad alcuni superstiti di salire a bordo. Gli altri furono recuperati il giorno successivo.
Delle 45 persone presenti sul Fokker al momento dello schianto, 6 passeggeri furono risucchiati fuori dall’aereo durante la caduta, 4 morirono a causa dello schianto, 8 rimasero schiacciati dalla valanga, 11 dei feriti morirono in seguito, a causa delle lesioni della malnutrizione o altro.
Una volta in ospedale, tutti i 16 sopravvissuti del volo 571 poterono raccontare ciò che era successo e molti di loro ritornarono sul posto per rivedere il luogo della loro drammatica avventura.
Fonte: Wikipedia.org